mercoledì 16 maggio 2012

1. Di Marco e di quella volta che ebbe a prendere l'autobus

Le porte gli si spalancarono proprio davanti.
Marco salì sull’autobus e la prima cosa che gli venne naturale di fare fu guardare l’autista per salutarlo con un buon pomeriggio, ma quello non si voltò, guardava la strada dritto davanti a lui, forse, nascosti gli occhi dietro le lenti da sole. Ed il buon pomeriggio di Marco restò solo un incompiuto proposito.
Obliterò il suo biglietto mentre l’autobus riprendeva a muoversi; la ripartenza fu tanto brusca che dovette aggrapparsi forte all’obliteratrice per non cadere, mentre la ragazza che aveva aspettato l’autobus con lui gli franò addosso. L’aveva sentita esclamare “…ca troia!” ed ora gli chiedeva scusa, mentre lui respirava il profumo fruttato di shampoo della sua coda di cavallo castana.
Marco sedette in fretta sul primo seggiolino che trovò libero. L’autista guidava da cani: accelerava e frenava, riaccelerava e di nuovo frenava. Cazzo ti corri? Ché la strada era trafficata e stretta tra due ininterrotte file di auto parcheggiate ai lati.
La ragazza con la coda di cavallo era galoppata in fondo all’autobus. Marco la conosceva; meglio, l’aveva incrociata già un sacco di volte in giro per il suo quartiere, ai giardinetti e al supermercato; pensava anche di sapere dove abitava perché un giorno l’aveva vista uscire dal cancello di un condominio e non poteva certo immaginare che quel giorno era salita al terzo piano di quel palazzo solo per dare ripetizioni di greco.
Al semaforo dell’incrocio con lo stradone che portava in centro, l’autobus inchiodò di brutto e Marco slittò in avanti senza cadere dal seggiolino proprio per poco. Da più d’un passeggero si levarono insulti all’indirizzo dell’autista. Imperterrito. Al verde ripartì senza riguardo alcuno ed un ragazzo che stava in piedi aggrappato ad una maniglia perse la presa, rischiò di cadere a terra e si cavò d’impiccio solo per sbattere subito dopo il naso contro il grugno di un amico più piccoletto.
Felice di essere seduto, Marco si portò la mano alla fronte per nascondere una mezza smorfia. Poi si guardò vanamente attorno e s’accorse di essere osservato. Un ragazzo bruno che sembrava avere la sua stessa età, seduto giusto giusto dall’altro lato del mezzo, lo stava squadrando con un mezzo sorriso.Tanto caruccio, pensò Marco abbassando subito lo sguardo. Contò fino a cinque e con simulata noncuranza controllò e scoprì gli occhi neri del ragazzo ancora puntati fissi su di lui. Ti prego Gesù, fa’ solo che non abbia una qualche caccola che mi penzola dal naso…
Si voltò per guardare fuori, il viale che scorreva via albero dopo albero. Si toccò col dorso della mano la punta del naso che improvvisamente gli prudeva e poi si passò il palmo sui capelli per ravviare una ciocca che cadeva e gli dava noia. Erano ancora lì quei due occhi; neanche quel mezzo sorriso s’era mosso.
Marco guardò l’ora sul display del suo cellulare. Provò a contare i minuti che lo separavano dalla sua fermata e, siccome se l’era già scordata, ricontrollò l’ora sul display. Niente: i conti non gli venivano. Di’ qualcosa o smetti di fissarmi, perdio…
“Sai mica l’ora?”
“Come, scusa?” chiese Marco. Il rumore dell’autobus in movimento era forte e davvero non aveva capito.
“L’ora…?” ripeté il ragazzo dall’altro lato del corridoio. Sorrise ed indicò prima il proprio polso nudo, battendovi due volte il dito, poi il cellulare che Marco teneva in mano.
“Le due e quarantaquattro.”
“Come dici?”
Diosanto, non potevano essere semplicemente le tre? “Le due” pausa “e quaranta” pausa “quattro”. Lo disse cercando di scandire per bene le vocali. Ma il ragazzo rise e fece cenno di no con la testa.
Si sporsero l’uno verso l’altro. Marco tese il braccio per mostrargli il display del cellulare illuminato con le cifre 2:45 belle grandi e con le dita della mano libera compose un due, un quattro ed un altro quattro.
Il ragazzo, che non smetteva un attimo di sorridere, accennò di aver capito finalmente quanto gli aveva chiesto, poi tornò a poggiare spalle e capo contro il finestrino. Anche Marco riassunse la precedente posizione mentre riponeva nella tasca dei pantaloni il telefono. E nessuno dei due smise di guardare l’altro.
Tanta roba per davvero, pensò Marco. Il tizio riassumeva proprio i caratteri del suo tipo ideale. Capelli corti e corvini, carnagione scura, occhi neri come la notte e come la notte pieni di promesse e di mistero.
L’autobus fermò nel piazzale antistante la stazione ferroviaria. Né Marco né il moretto scesero, ma il mezzo si riempì di gente e sembrava che tutti non volessero altro che frapporsi fra loro due. Alla fermata successiva Marco si alzò e cedette il posto ad un donna che teneva un bimbo per mano; si avvicinò alle porte di discesa e lanciò altri sguardi come esche, e lo sconosciuto sembrava abboccare. Dimenticava Marco di essere stato per primo preso all’amo. Ed aveva dimenticato da un pezzo che l’autista guidava da cani. Qualcuno gli pestò pure un piede.
Quando le porte del mezzo si aprirono di nuovo, era ora di scendere. Marco esitò tre interminabili secondi e non sentì il bamboccio che alle spalle gli borbottò “Allora, te ne scendi o mi lasci scendere?”.
Scese in strada, nella piazzetta davanti il castello. Si voltò indietro e del ragazzo moro ora vedeva solo la nuca. Peccato tu non sia sceso….
E non gli passò per la mente che in quel momento qualcun altro stava pensando Peccato tu sia sceso…

L'episodio 2.

Nessun commento: